25 maggio 2016

Quando i Signori C. ci dissero di salire. Palermo, la Vucciria e le zucche di strada.



Saranno passati circa quindici anni dai giorni trascorsi in quella grande casa dietro ai Quattro Canti.

Bastava proseguire poco oltre e ti ritrovavi davanti alla cattedrale, che ogni volta, in quei giorni afosi, mi sembrava mescolarsi all’aria, così simile ai castelli costruiti in spiaggia lasciando gocciolare la sabbia bagnata dalle dita.

Era settembre e Palermo aveva ripreso vita dopo un po’ di quiete per le ferie di agosto.

L’appartamento si trovava all’interno di un palazzo storico, dove ampi balconi si affacciavano all’interno della corte rendendo familiari tutti i vicini. Ci stavamo io e il mio ragazzo di allora, in vacanza. I due fratelli padroni di casa, una coppia di studenti di Berlino, due ragazze dell’est, anche loro studentesse, e una siciliana fuggita da un piccolo paesino dell’entroterra e rifugiatasi lì, in una piccola stanzetta.

Ogni giorno un viavai fluido e pacifico di amici che portavano da mangiare, buon vino, chiacchiere e nuove scoperte: chimici, architetti, ballerine, medici, un cuoco che ci ha sfamato tutti per giorni, studenti, stranieri di passaggio, stranieri trapiantati, palermitani espatriati e di ritorno.

“Ma lo sapete chi ci abita qui su?”. Ci fa un giorno il cuoco. “I Signori C., lui è siciliano e lei è romana. Lei avrà circa sessant’anni, lui più di ottanta e si sono innamorati qualche anno fa… Stanno proprio qui sopra di noi, vedrete che presto v’invitano.”

... 


“Ma ancora non li avete visti?”

... 


“L’avete sentita cantare, almeno? Lei alla sua età ha la passione per la birra: beve e canta stornelli a squarciagola!”



Fu in un giorno di pioggia che avvenne. Eravamo tutti in cucina e, finito di piovere, qualcuno si accorse che fuori c’era l’arcobaleno. Uscimmo in balcone e la Signora C., affacciata sopra di noi, gridò: ”Romani! Romani! E lo sapevo che prima o poi v’avrei trovato! Venite, venite subito su chè v’aspettiamo!” E intonò uno stornello...

Non lo sapevamo ancora che ci aspettava e come mai, in quei giorni, tutti ci avessero in qualche modo avvisato.

Lei era piccola, coi capelli corti e grigi. Lui alto, magro e flemmatico. Lei parlava veloce con voce roca e rotta da risate, lui un nobile con le vocali lunghe e quasi sussurrate. Ci fecero entrare in un luogo, la loro casa, che forse solo Federico Fellini avrebbe potuto allestire con un gusto altrettanto onirico. 
Un salone enorme, con diversi divani damascati e poltrone e tappeti, vetrine di oggetti, lampadari come a dover illuminare serate di balli in maschera. Su una credenza, cornici con foto e anche sul muro, foto con ritratti vecchissimi e qualcosa scritto a penna. Lui ne prese un paio e ce le avvicinò, per farci scorgere con meraviglia che di Verdi e di Wagner si trattava, che suo nonno aveva ammirato e conosciuto e a cui era riuscito a strappare una foto con dedica, cent’anni prima, come ogni ammiratore che si rispetti.

E tra le chiacchiere vocianti e le risate della moglie continuavamo a guardarci intorno, a scoprire giradischi, vecchie radio, un grammofono, ritratti alle pareti e libri, tantissimi libri appoggiati ovunque. E, come in ogni antica casa che si rispetti (per me ulteriore sorprendente scoperta in mezzo a tanto), ogni stanza conduceva ad un’altra senza soluzione di continuità. E così dal salone si entrava direttamente in una cucina bianca col tavolo e i piani di marmo e da questa in camera da letto, col baldacchino, le pareti di stoffa, la cipria e i profumi sulla toeletta in un clima di fascinazione dannunziana. E con le porte aperte, da lì con gli occhi abbracciavi tutto il resto manco ci servisse altro ad aumentare lo stupore.

Dalla camera uscimmo su uno dei terrazzi, con lui che ci parlava della Palermo che si affacciava da lì, indicando i punti in lontananza, con gli occhiali calati sul naso. E finì ai ricordi e agli antenati, poiché il suo nonno di prima fu un garibaldino, sbarcato in Sicilia coi Mille e divenuto il primo sindaco della storia di Calatafimi.

“E sapete una cosa? La casa continua: c’è un’altra porzione al di là del terrazzo. Ma ... ma non penserete mica che io sia ricco, vero?” E mentre ci conduceva oltre, venimmo a scoprire che a causa dei bombardamenti su Palermo durante la guerra, molti fuggirono via, abbandonando, spesso per sempre, le proprie abitazioni. Alcuni dei proprietari non tornarono mai più nelle loro case, perché la guerra se li era portati via o perché semplicemente erano emigrati.

Fu così che lui, essendosi innamorato di quella casa e desiderando acquistarla, si mise alla ricerca dei vecchi proprietari o, quanto meno, dei discendenti. Tra le scartoffie comunali e le ricerche personali riuscì a trovare i nipoti, che oramai vivevano in Svizzera e non gli chiesero nulla.

Fu così che tutto fu suo per pochi soldi, versati come tassa che il Comune richiedeva in quelle situazioni. 


Nel frattempo la moglie cantava in cucina.


Ci salutammo e lui ci porse delicatamente il suo biglietto da visita, che a distanza di tanti anni ancora conservo e che mi riporta ogni volta a quelle mani magre e dinoccolate, al suo sguardo pensoso e distaccato.


S’era arrivati al tramonto. Scendemmo e restammo in casa, ad aspettare un nuovo ospite e una nuova storia come ogni sera.


Se c’è una ricetta per Palermo, per questa città che rividi ancora alcuni anni fa con immutato amore, per queste persone che riempiono i miei ricordi, non lo so. Sicuramente non una sola, come del resto non è solo questa la storia che vi vorrei raccontare. Di questa casa e del cuoco avevo parlato già tempo fa, preparando la ricetta delle milinciani a' la parmiciana che mi fu data proprio da lui con tanto di riferimenti storici.

Siccome uscendo da lì e girando al primo vicolo sulla sinistra si scende alla Vuccirìa, allora sappiate che proprio là troverete ancora chi vende la zucca fritta in agrodolce e che proprio là ci andavamo a sfamare quando il cuoco era impegnato coi turni del nuovo lavoro di telefonista al call center. I palermitani la chiamano “u ficatu ri setti cannola” (il fegato dei sette rubinetti), perché viene venduta dagli ambulanti accanto alla fontana del Garraffello, in una piazza del mercato, che ha appunto sette cannule, sette rubinetti. Inoltre il nome fa riferimento al fatto che era un cibo povero, che comprava chi, non potendosi permettere il fegato, si accontentava di una sua versione umile.
E questo, per ora, su Palermo è tutto.




ingredienti
500 grammi di zucca rossa
olio extravergine d’oliva
1 spicchio d’aglio
¼ di bicchiere di aceto
un cucchiaio di zucchero
sale

foglioline di menta 


Mondare la zucca e tagliarla a fette sottili oppure julienne(io la preferisco così). Passarla nell'olio caldo e, una volta cotta, metterla da parte in un piatto. Aggiungere nell'olio usato per la fritura uno spicchio d'aglio (intero o a pezzetti, secondo il gusto), lasciare scaldare e aggiungere di nuovo la zucca. Versarvi l'aceto in cui avrete sciolto lo zucchero e far sfumare a fiamma vivace.
Adagiare infine su un piatto da portata e aggiungere qualche fogliolina di menta. 
Si può conservare in frigo per un paio di giorni.

17 maggio 2016

Irma, le acciughine e la terribile arte del motore a pedale.

C’è una scalinata ripida che finisce con una porta finta. Quella vera è sul lato della scala, ti appare nel bel mezzo del nulla e bisogna fare attenzione quando si apre.

Entrare è come varcare un piccolo confine col reale. Tutto quello che sembra non è.

Le pareti, in parte circolari, sono coperte da mobili pieni di libri e vecchi ricordi. Da qui parte una scala che porta a un altro piano.

Al centro della stanza un tavolo, tondo, col centrino in mezzo e intorno le sedie rivestite di velluto. Il lampadario coi pendenti di cristallo, un divanetto e un tavolino che tavolino non è, ma due panche accostate e nascoste da una tovaglia. Un cucina piccola, sul lato sinistro della stanza, e una dispensa bassa con le tendine al posto degli sportelli perché prima era una libreria.

Lì vive, lavora e si muove con la grazia di un pettirosso la mia amica Irma, che ha tanti anni, poche rughe e una voce da bambina. E che quando arrivo mette su un po’ di musica.

Tira fuori la mia macchina, l’appoggia sulle panche che sono un tavolino e io comincio a cucire. Tra ritagli di stoffa e lavori da ultimare, lei ignora pazientemente tutte le mie insicurezze e mi incoraggia nella terribile arte del motore a pedale.

Una mattina si lavorava, io la ascoltavo darmi consigli e riflettere sui tempi che cambiano, quando scoppia un temporale. Sale di corsa al piano di sopra per chiudere le finestre e finalmente mi chiama, mi dice di salire. Avevo più volte cercato di immaginare, fare ipotesi, proiettare le sue stramberie anche lì su.

Salgo in un attimo e mi dice di avvicinarmi. Da lì, da quella finestra di una vecchia casa, in alto nel borgo storico del mio paese, si affacciava la distesa livida e tempestosa del mare, col cielo scuro che sembrava cascargli addosso. Siamo rimaste un attimo in silenzio, poi mi ha chiesto di restare lì a lavorare, con la sua macchina. Mentre è scesa a prendere il necessario, mi sono guardata intorno. Una stanza divisa in due da un paio di pannelli di compensato, verniciati di bianco e tenuti insieme da vecchie cerniere e qualche martellata di chiodi. Da una parte la camera da letto, con un’altra finestra sul mare, e dall’altro il suo spazio di lavoro. Una macchina per cucire di quelle storiche, di ghisa, e una sedia di legno scuro senza alcun comfort. Poi l’asse da stiro: uno scaffale riadattato, imbottito, ben sistemato per l’uso. Tutt’intorno stampelle appese con casacche accorciate, gonne ristrette, vestiti e maglie su misura.

Mi fa: “Siediti pure lì, con questa lavoro io e ti faccio vedere qualcosa di nuovo”. Io mi siedo lì, un fustino del Dixan. “Tranquilla che resiste, mettiti bene il cuscino per stare più comoda.”

La guardavo lavorare, annuivo alle sue spiegazioni, ma non c’ero più.

Immaginavo lei e sua sorella e la mamma e il papà, abitanti un tempo tutti quanti di quel luogo incantato. Immaginavo, non so perché, i loro capelli, le trecce da rifare al mattino, i sali e scendi per quelle scale, le bambole, alcune ancora presenti, lì intorno, coi vestiti cuciti a mano.

Guardavo il pavimento, uguale a quello di mia nonna e ripensavo alla cucina, alla spesa lasciata sul tavolo, al sugo che bolliva per ore in pentola e le spolverate di farina sul tavolo.

Tornavo al presente solo quando lei si girava a guardarmi coi suoi occhi vivaci. O per risistemarmi il cuscino.

Così è qui che svelo un altro mio segreto, di quando ogni tanto al mattino sparisco, rapita, incantata dalle mani abili di una vecchina, dalla sua voce allegra e da una casa di meraviglie. Ancora e sempre intimorita dal motore a pedali della macchina per cucire, da un nuovo mestiere che chissà se sarà mai veramente il mio, alla ricerca però sempre di una strada di gioia e colore.

La ricetta che vi lascio viene da una nonna e la racconta Giulia. Per me è spuntino, a volte, ma accompagnato con un po’ di verdura diventa volentieri anche pranzo, quando di ritorno mangio in fretta e alla ricerca di sapori intensi.



















Ingredienti
pane toscano (o un pane casereccio della propria regione)
burro
acciughe sotto sale o sott'olio
capperi (pure, sotto sale o aceto)

Imburrate ben bene il pane, tostato o fresco, come più vi piace. Disporre le acciughine sott'olio (se usate quelle sotto sale, ricordarsi di lavarle) e uno o due capperini per fetta. Fatto. 
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